ATTIVITÀ FISICA E CANCRO



La diagnosi di cancro e la successiva terapia sono eventi che incidono profondamente nella vita del paziente: l’equilibrio psicofisico è scosso, l’integrità della persona minacciata. Il futuro appare improvvisamente incerto. 
È tuttavia un fatto che negli ultimi anni l’aspettativa di vita di molte malate e malati di cancro si è notevolmente allungata grazie al miglioramento delle terapie: una buona ragione per guardare avanti. 
Ci sono vari modi per superare progressivamente lo shock della diagnosi e lo stress della terapia e riscoprire la gioia di vivere. Uno di questi è l’attività fisica. 

L’attività fisica rende più vitali, anche in caso di cancro. 
Un’attività fisica regolare può ridurre le difficoltà e i problemi legati a una malattia tumorale e alle terapie e può contribuire a farle ritrovare la gioia di vivere. 
Deve però praticare tali attività con giudizio, adeguandole alle sue capacità attuali. I vantaggi che ne può ricavare sono molti: 
  •  maggiore mobilità
  • forza e resistenza
  •  influsso positivo sul sistema immunitario
  • divertimento
  • nuove conoscenze (se si iscrive a un gruppo)
  • nuove esperienze
  • svago 






La terapia sportiva – molto più di una semplice opportunità 
È noto da diverso tempo che si può ridurre il rischio di certe forme tumorali praticando regolarmente attività fisica. Ora si moltiplicano gli studi scientifici che confermano l’utilità dell’attività sportiva anche in caso di malattia. La terapia sportiva sta diventando perciò sempre più una componente della riabilitazione oncologica. 
Le possibilità e i benefici dipendono tuttavia dalla situazione del paziente, dalle sue condizioni di salute e dal tipo di cancro. 
È dimostrato che l’attività fisica esercita un effetto positivo sul rendimento e sulla qualità della vita. I pazienti si sentono meno stanchi e meno spossati. Non è da sotto- valutare nemmeno l’effetto sulla psiche. L’attività fisica può anche rendere più tollerabile una terapia anti-tumorale. La ricerca sta attualmente studiando se può influire anche sul decorso della malattia. 
Il moto e lo sport non sono però una panacea o garanzia di salute e benessere, né per le persone sane né per i malati. 


Il programma ideale di attività fisica 
Grazie a un programma di attività fisica studiato appositamente per lei aumenterà la sua forza e la sua resistenza, migliorerà la sua mobilità e riuscirà a rilassarsi meglio. 
Il successo dipende anche dall’osservanza di queste regole: 
  • fare attività fisica fin quando ci si sente ancora bene
  • interrompere l’allenamento in caso di dolori
  •  mai esagerare, non fare dell’attività una questione di orgoglio
  • allenarsi meno intensamente ma più a lungo
  •  dopo uno sforzo rilassarsi: per es. dopo esercizi d’irrobustimento fare stretching, esercizi distensivi e di rilassamento
  • fare delle pause per permettere all’organismo di riprendersi
  • non togliere le calze di compressione se le si usano abitualmente
  •  bere sempre a sufficienza durante l’attività fisica, preferibilmente acqua, tè o succhi di frutta diluiti


L’allenamento alla resistenza 
Se si farà regolarmente del moto e in giusta misura si constaterà un sensibile miglioramento della resistenza già dopo poche settimane. Superate le prime difficoltà si potrà poi aumentare pian piano l’attività fisica. 
La durata dell’attività può variare da dieci minuti a un’ora, a seconda della forma del momento e della motivazione personale. L’intensità dello sforzo deve essere adattata alle capacità e allo stato d’animo del soggetto. 

Il polso – rivelatore dello sforzo 
I limiti fisici ideali dello sforzo possono variare: dipendono dal periodo di inattività precedente, che può essere stato lungo o breve, e dall’intensità con cui il soggetto può o deve praticare l’attività fisica. Questi limiti sono indicati dai battiti del polso in allenamento. Si distingue tra polso a riposo e sotto sforzo. 
Il polso è detto dagli specialisti anche frequenza cardiaca (FC). 
Il polso a riposo: indica la frequenza cardiaca do- po alcuni minuti di riposo, in piedi o seduti. Si misura prima di cominciare l’allenamento. 
Il polso sotto sforzo: indica la frequenza cardiaca ideale per l’effetto allenante individuale. Si misura subito dopo lo sforzo. Si può controllare anche durante lo sforzo per mezzo di appositi strumenti per la misurazione del polso. Il polso sotto sforzo varia da persona a persona e dovrebbe essere misurato da una persona esperta. 

La misurazione del polso 
  • Prendere un orologio col contasecondi.
  • Appoggiare l’indice e il medio sul polso dell’altra mano, sotto l’attaccatura del pollice.
  •  Contare i battiti per 10 secondi partendo da «0». 
  • Moltiplicare il numero dei battiti per 6. Otterrà così il numero di battiti al minuto, cioè la frequenza cardiaca. 

La misurazione del polso sotto sforzo
Chiedere al medico, alla fisioterapista o al trainer addetto al corso quale sia per lei il polso sotto sforzo consigliabile. Nell’occasione si potranno controllare anche la pressione e altri valori. 
In linea di massima si può applicare questa formula: 180 meno l’età.
Per una persona di 60 anni: 180 – 60 = 120. 

Il valore ideale può essere superiore o inferiore di 10 punti. Ciò significa che il  polso sotto sforzo ideale si situa fra 110 e 130. Se si sottopone a un allenamento più intenso si ricorre a un altro tipo di misurazione e il polso sotto sforzo può essere di conseguenza più elevato. 

Importante 
  • Prima di programmare/effettuare l’allenamento parlare col  medico o con il trainer specializzato del corso.
  • L’allenamento alla resistenza può essere anche faticoso, ma non deve essere massacrante.
Interpretazione dei valori 
  •  Il valore rilevato è tanto più positivo quanto più rapidamente il polso scende sotto i 100 battiti dopo lo sforzo.
  •  L’obiettivo è di far scendere il polso ai valori normali 2–3 minuti dopo lo sforzo.
  • Dopo un po’ di tempo l’organismo si adatterà alla sollecitazione; ciò significa che la capacità di resistenza è aumentata.
Il test del parlato 
Si può controllare approssimativamente la frequenza cardiaca anche attraverso la respirazione. 
Un metodo semplice consiste nel test del parlato. Si dovrebbe essere in grado di conversare con qualcuno anche sotto sforzo. Se si fa fatica a pronunciare frasi compiute o se si sentono delle fitte al fianco, ciò significa che l’intensità dell’allenamento è troppo alta: ridurre dunque lo sforzo, respirare più lentamente e proseguire con un altro ritmo. 

La scelta delle attività 
Dipende dalle attività che si sceglie, ma si raccomanda di farsi istruire da una persona competente (corsi introduttivi, istruzione da parte di una fisioterapista/tera- pista di sport, dell’allenatore ecc.). Eviterà così posture errate e l’effetto allenante migliorerà. Anche il tipo di cancro e di intervento subito influiscono sulla scelta dell’attività fisica più adatta. 
Attività all’aperto, in palestra 
  • escursioni, camminate
  •  walking (con/senza bastoni)
  •  jogging
  •  bicicletta
  •  nuoto
  •  allenamento in acqua (aquafit, aquagym, aqua-jogging)
  •  canotaggio
  •  sci di fondo
  •  escursioni con racchette da neve
  •  ecc. 


Attività in un centro fitness (in parte con attrezzi)

  •  danza (dall’afro a salsa e zumba) 
  • nastro o pedana mobile
  • step
  • cross trainer (attrezzo con computer integrato, programmazione/misurazione dello sforzo ecc.) 
  • ergometro 
  • ecc. 


Attività a domicilio o altrove 
Ci sono tante possibilità di migliorare la resistenza durante la giornata. Andare il più possibile a piedi invece di prendere la macchina o il tram, salire le scale invece di prendere l’ascensore.
Rallegrarsi degli effetti positivi 
Le attività summenzionate non migliorano solo la resistenza, esse accrescono anche la forza, la mobilità e la capacità di reazione. Le attività possono essere accelerate o rallentate, tutto dipende dalle condizioni generali di salute e dalle  possibilità del soggetto. 
L’importante è scegliere tipi di allenamento che  fanno veramente piacere.  Già dopo poche settimane di regolare allenamento si potranno costatare gli effetti positivi sulla «forma» e sulle  prestazioni fisiche. Il cuore e i polmoni si irrobustiscono grazie alla maggiore sollecitazione, migliorerà la circolazione sanguigna degli organi, la respirazione sarà più profonda. Ci si sentirà di poter fare di più e svilupperà spirito d’iniziativa. 
Migliorerà anche la capacità dell’organismo di trasportare ossigeno ai muscoli in azione e di smaltire l’anidride carbonica. Anche il sistema ormonale e nervoso ne trarranno benefici effetti e ciò influirà positivamente anche sull’umore. 
Lo sviluppo della forza 
Un allenamento equilibrato comprende anche esercizi per lo sviluppo della forza. Non si tratta di fare del culturismo. Lo sviluppo della forza avverrà in modo graduale e senza sforzo. 
Dopo un’operazione e una terapia antitumorale molti pazienti si sentono per qualche tempo piuttosto deboli e apatici. Fanno meno moto e sono subito stanchi. Spesso tralasciano anche le normali attività quotidiane. 
Il risultato è che l’intera muscolatura si rilascia non essendo sollecitata: la massa muscolare perde così volume. Si ha sempre più la sensazione di essere senza forze. A causa della ridotta massa mu- scolare viene a mancare un importante sostegno del corpo: ciò ha effetti negativi sul portamento, le articolazioni, la schiena. 

Fiducia nei propri mezzi fisici e sicurezza
Grazie a un allenamento e a esercizi adattati alle possibilità si può irrobustire l’organismo. Ci si sentirà così più sicuro e si riacquisterà fiducia nei propri mezzi fisici. 
L’irrobustimento della muscolatura rende il corpo più stabile e resi-stente e ci si stancherà di meno. Si possono così prevenire cadute, posture scorrette e movimenti non coordinati. 
Il tipo di allenamento giusto 
La scelta del tipo di allenamento, di eventuali ausili e degli esercizi adatti dipende dalle possibilità del soggetto, dai suoi bisogni e dagli obiettivi. 
Secondo le proprie preferenze può essere indicato un centro fitness. Una buona consulenza e assistenza non dovrebbero mancare. 
  •  Si può anche munirsi di attrezzi, per es. manubri, un estensore o un Theraband 
  •  Nell’ambito di un programma di ginnastica per migliorare la forza fisica anche il peso corporeo ha una funzione importante, per es. quando ci si alza dalla posizione raccolta, in esercizi di lancio o trazione ecc. 
L’intensità dell’allenamento:
L’intensità dell’allenamento
> Allenarsi una o due volte la settimana.
> Prima di cominciare è importante il riscaldamento (warm up).
> Espirare durante lo sforzo e inspirare quando si distende.
> Eseguire i movimenti lentamente.
> Evitiare movimenti bruschi.
> Non dare mai fondo a tutte le  energie.
> Almeno inizialmente impiegare solo la metà circa delle forze: si deve avvertire solo un leggero sforzo.
> Se si usano degli attrezzi, regolare la resistenza su valori bassi o usi attrezzi meno pesanti, così non si dovrà impiegare troppa forza eseguendo l’esercizio. In compenso ripetere sempre di più l’esercizio.
> Concludere l’allenamento con esercizi distensivi (cool down).


Sitografia: Health On the Net Foundation, e sono pertanto conformi al cosiddetto standard HONcode (www.hon.ch/HON- code/Italian). 




Author: Dott. Eugenio Isidoro Scibetta Co-Founder & Admin Scienze Salute e Benessere





ARITMIE E IPERTENSIONE ARTERIOSA: QUANDO È POSSIBILE LO SPORT AGONISTICO?

Nell'80% dei casi l'inidoneità alla pratica sportiva agonistica è dovuta a problemi cardiologici e, tra questi, il 50% è rappresentato dalle aritmie. Va comunque subito precisato che non tutte le aritmie pregiudicano l'attività sportiva e proprio per questo ogni cinque anni la Società Italiana di Cardiologia dello Sport, insieme alle altre Società scientifiche della cardiologia (SIC, ANMCO, ANCE, FMSI), valuta i progressi della ricerca in ambito cardiovascolare e aggiorna di conseguenza le linee guida, in modo da ampliare, se possibile, lo spettro delle persone a cui concedere il nulla osta. 













Le aritmie
Le aritmie vengono divise in atriali o ventricolari, oppure vengono distinte in bradiaritmie, la cui evidenza è un rallentamento esagerato del battito cardiaco, e in tachicardie, che provocano invece un'accelerazione anche esasperata del battito. Le forme atriali sono genericamente identificate come benigne, benché alcune siano estremamente invalidanti, per esempio le tachicardie parossistiche. Difficilmente comunque queste patologie possono portare a morte improvvisa, a meno che non sussistano delle particolari anomalie nelle vie di conduzione, come la cosiddetta sindrome WPW (Wolff Parkinson White), che provoca una desincronizzazione elettrica del ventricolo.
Le forme ventricolari sono solitamente all'origine di una malattia cardiaca. Nei giovani possono nascondere una cardiopatia aritmogena del ventricolo destro, una cardiomiopatia ipertrofica, un' origine anomala delle coronarie, oppure una miocardite, il prolasso della mitrale, o ancora una cardiomiopatia ischemica giovanile. 


Esistono inoltre morti cardiache aritmiche, senza cioè che vi sia una causa organica, ma genetica: per esempio la sindrome del QT lungo, oppure la sindrome di Brugada. In ogni caso, per mettere in allarme un cardiologo basta anche solo un elettrocardiogramma di base. 

Come dicevo prima, la ricerca medica si sta impegnando per poter allargare la possibilità alla pratica sportiva a quante più persone possibili con aritmia. Naturalmente la difficoltà sta nello stabilire quanto lo sport può essere pericoloso o meno per un cuore con aritmia. 
Per alcune di queste patologie la moderna aritmologia si può giovare anche di un intervento di ablazione transcatetere: le aritmie vengono riconosciute ed eliminate definitivamente con un intervento a torace chiuso. Attraverso speciali cateteri, che arrivano al cuore per via venosa, le aritmie vengono "bruciate" da una sorta di raggio in radiofrequenza che provoca una piccola cicatrice nel cuore nel punto esatto in cui ha origine il circuito dell'aritmia. A volte l'aritmia è un fenomeno transitorio dovuto a squilibri elettrolitici: in questi casi basta riequilibrare gli ioni e l'aritmia scompare. 
Lo stesso discorso vale per le miocarditi: una volta guarita l'infezione che le provoca, l’atleta può riprendere tranquillamente l’attività sportiva. 

La morte improvvisa
L'altro grave problema correlato alle aritmie è sicuramente la morte improvvisa: vale a dire il decesso inaspettato di un giovane in perfette condizioni di salute.
Esistono infatti patologie cardiache assolutamente silenti e di difficile diagnosi che improvvisamente, appunto, possono condurre ad un'instabilità elettrica del cuore e provocare la morte. In teoria nel nostro Paese questo evento non dovrebbe accadere, perché la legge impone per tutti e a tutti i livelli, anche agli amatori, un certificato che ne attesti l’idoneità prima di intraprendere qualsiasi attività. La visita prevista, che comprende un elettrocardiogramma di base, un elettrocardiogramma dopo sforzo al gradino, una spirometria, un esame delle urine, oltre naturalmente all’auscultazione del cuore, mette in guardia da pericoli e preserva quindi da qualsiasi sorpresa.
Ho sottolineato che ciò avviene in Italia perché, purtroppo, in altri Paesi Europei (per esempio la Germania e la Grecia) l'elettrocardiogramma non è obbligatorio nemmeno per i professionisti. 

Ipertensione
I giovani con ipertensione di livello lieve possono tranquillamente praticare sport, a patto però che l'attività fisica sia di tipo dinamico, e non di tipo isometrico (che comporti quindi uno sforzo muscolare statico).
Sono consigliabili attività come la corsa, il nuoto, per certi versi il ciclismo. Assolutamente da evitare è il sollevamento pesi, sport che determina un aumento molto brusco dei valori pressori, anche nelle persone con valori di pressione normali. Sono inoltre da considerare pericolosi gli sport che richiedono in modo prolungato una tensione muscolare, per esempio la ginnastica artistica, le parallele, cioè tutte quelle attività che richiedono contrazione prolungata e forte della muscolatura. Ci sono comunque molti sport ad attività mista, che comportano sia il movimento che lo sforzo statico del muscolo, come per esempio lo sci e il tennis, di cui non si può dire in assoluto che facciano bene o male. L' attività di tipo aerobico sotto massimale, cioè al 60 - 70% del consumo d'ossigeno, fatta in maniera regolare (tre volte alla settimana per almeno 20-30 minuti) ha addirittura effetti terapeutici abbassando i valori pressori.
L'idoneità alla pratica agonistica viene data se la pressione di base non supera i 140-90 mmHg.
In caso di valori più elevati, sottoponiamo l'atleta ad altri test: il monitoraggio della pressione sotto sforzo (in questi casi i valori massimali accettati sono 230-100 mmHg); il monitoraggio sulle 24 ore (il via libera alla pratica agonistica viene concesso se la media nelle 24 ore non supera i 135-85 mmHg). L'importante è che devono essere assenti danni d'organo: disturbi di tipo retinico o la presenza di un'ipetrofia esagerata del cuore necessitano di un trattamento farmacologico e molti dei farmaci idonei sono considerati dopanti, per esempio i betabloccanti ed i diuretici, e non possono quindi essere prescritti.
In questi casi l'idoneità all'agonismo diventa più difficile, ma deve essere comunque consigliata un'attività fisica idonea. 



Bibliografia: Dott. Alessandro Biffi - Cardiologo, Istituto di Scienza dello Sport del CONI 





Author: Dott. Eugenio Isidoro Scibetta Co-Founder & Admin Scienze Salute e Benessere



LE EXTRASISTOLI NELLO SPORTIVO






Le "extrasistoli ventricolari", o più correttamente i Battiti Prematuri Ventricolari (BPV) sono stati descritti in circa l’1% dei soggetti apparentemente sani studiati con l’elettrocardiogramma (ECG) di base [1] e nel 40-75% dei soggetti senza apparente cardiopatia valutati con ECG di Holter 24-48 ore [2-4]. Anche i BPV frequenti (> 30/h) e complessi (polimorfi, ripetitivi o R/T) possono essere riscontrati in popolazioni apparentemente sane, sebbene più raramente [4-8]. Tali individui costituiscono, infatti, circa l’1-4% della popolazione generale, inclusi gli atleti [5]. Gli studi Holter effettuati sugli atleti non hanno mostrato significative differenze con gli studi sulla popolazione generale, documentando una prevalenza del 35-70% di BPV e del 3-25% di forme complesse, incluse le tachicardie ventricolari non sostenute (TVNS) [9-12]. 

Per quanto attiene gli aspetti prognostici, è generalmente accettato il concetto che quando i BPV, anche in forma frequente e complessa, sono riscontrati in persone peraltro sane ed in cui sia stata esclusa una cardiopatia con le più moderne metodiche diagnostiche, essi devono essere considerati benigni e con una prognosi assolutamente favorevole [5-8]. Gli atleti, pur rappresentando l’espressione “più sana” della popolazione generale, vengono in realtà giudicati come una categoria a rischio e, in un certo senso, “discriminati” rispetto ai soggetti sedentari: sia per motivi medico-legali, sia perché tale rischio non è ancora ben noto e documentato. E’ naturale, quindi, che quando una aritmia ventricolare, soprattutto se frequente e/o complessa, viene documentata in un atleta, essa generi nello specialista in medicina dello sport o nel cardiologo una particolare apprensione, accompagnata da un atteggiamento circospetto, spesso dovuto all’impossibilità di appurare se si tratta di un fenomeno benigno oppure potenzialmente letale [13]. 

L’approccio clinico alle aritmie ventricolari dell’atleta dovrebbe basarsi su tre punti fondamentali: 

  • primo, esso non dovrebbe essere diverso da quello in atto per le aritmie ventricolari in soggetti sedentari a cuore apparentemente sano. In entrambe le popolazioni, infatti, esiste la medesima probabilità che l’aritmia sia l’espressione di una cardiopatia misconosciuta o rappresenti un marker indipendente di rischio di morte improvvisa [14] 
  • secondo, a fronte di queste osservazioni, non andrebbe mai dimenticato che gli atleti possono evidenziare le peculiarità morfologiche del “cuore d’atleta”, che includono un aumento della massa e degli spessori ventricolari sinistri, nonché un marcato aumento delle dimensioni ventricolari, spesso in relazione al tipo di sport, al sesso ed a presumibili fattori genetici [14-16]. Il grado di tale rimodellamento cardiaco può, in determinati atleti di elevato livello, far nascere il sospetto della presenza di una malattia cardiaca, in particolare quando alcune anomalie ECG sono riscontrabili in circa il 40% di una popolazione di atleti di elite [17]. Pertanto, il problema della diagnostica differenziale tra forme fisiologiche e patologiche assume, negli atleti, risvolti più intricati rispetto alla popolazione non atletica.
  • infine, alcuni recentissimi lavori segnalano un rischio aumentato di morte improvvisa (2.5 volte) negli atleti al di sotto dei 35 anni rispetto ai sedentari di pari età [18]. Secondo tali Autori, l’esercizio fisico non aumenterebbe “per se” il rischio di morte improvvisa, ma agirebbe come “trigger” per lo sviluppo di aritmie fatali esclusivamente in atleti portatori di una anomalia cardiaca subclinica e non identificata. Da ciò deriva l’importanza di escludere con la massima certezza la presenza di una cardiopatia in un atleta portatore di una aritmia ventricolare frequente e complessa, cosa per altro ampiamente sottolineata dai protocolli cardiologici italiani per il giudizio di idoneità allo sport agonistico, recentemente rielaborati [19] 



Bibliografia 
  1. Hiss RG, Lamb LE. Electrocardiographic findings in 122,043 individuals. Circulation 1962; 25: 947-61.
  2. Raftery EB, Cashman PMM. Long-term recording of the electrocardiogram in a normal population. Postgrad Med J 1976; 52 Suppl 7: 32-7.
  3. Bjerregaard P. Premature beats in healthy subjects 40-79 years of age. Eur Heart J 1982; 3: 493-503.
  4. Kostis JB, McCrone K, Moreyra AE, et al. Premature ventricular complexes in the absence of identifiable heart disease. Circulation 1981; 63: 1351-6.
  5. Kennedy HL, Whitlock JA, Sprague MK, Kennedy LJ, Buckingham TA, Goldberg RJ. Long-term follow-up of asymptomatic healthy subjects with frequent an complex ventricular ectopy. N Engl J Med 1985; 312: 193-7.
  6. Attinà DA, Mori F, Falomi PL, Musante R, Cupelli V. Long-term follow-up in children without heart disease withy ventricular premature beats. Eur Heart J 1987: 8 Suppl D:21-3.
  7. Fujimoto Y, Hirokane Y, Doi T, et al. Long-term follow-up of patients with frequent ventricular premature contractions. J Amb Monitor 1993; 6: 35-42.
  8. Gaita F, Giustetto C, Di Donna P, et al. Long-term follow-up of right ventricular extrasystoles. J Am Coll Cardiol 2001; 38: 364-70.
  9. Notaristefano A. Standards of dynamic electrocardiography (Holter) in top-ranking athletes of different sports. In: Lubich T, Venerando A, Zeppilli P (Eds), Sports Cardiology II. Bologna: A.Gaggi 1989: 355-71. 
  10. 10. Palatini P, Maraglino G, Sperti G, et al. Prevalence and possibile mechanisms of ventricular arrhythmias in athletes. Am Heart J 1985; 110: 560-7. 
  11. 11. Biffi A, Pelliccia A, Caselli G. Arrhythmias in athletes [Letter]. Am Heart J 1986; 112: 1349-51. 
  12. 12. Pantano JA, Oriel RJ. Prevalence and nature of cardiac arrhythmias in apparently normal well-trained runners. Am Heart J 1982; 104: 762-8. 
  13. 13. Kennedy HL. Ventricular ectopy in athletes. Don’t worry...more good news! [Editorial]. J Am Coll Cardiol 2002;40: 453-56. 
  14. 14. Biffi A, Pelliccia A. Reperti strumentali e patologici negli atleti di èlite. In: Trattato di Cardiologia. Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri. Excerpta Medica, S.Donato Milanese (MI), 2000. Vol. III, 2881-2904. 
  15. 15. Pelliccia A, Maron BJ, Spataro A, Proschan MA, Spirito P. The upper limits of physiologic cardiac hypertrophy in highly trained elite athletes. N Engl J Med 1991; 324: 295-301. 
  16. 16. Karjalainen J, Kujala UM, Stolt A, et al. Angiotensinogen gene M235T polymorphism predicts left ventricular hypertrophy in endurance athletes. J Am Coll Cardiol 1999; 34: 494-99. 
  17. 17. Pelliccia A, Di Paolo FM, Maron BJ. The athlete’s heart: remodeling, electrocardiogram and preparticipation screening. Cardiol Rev 2002; 10: 85-90. 
  18. 18. Corrado D, Basso C, Rizzoli G, Schiavon M, Thiene G. Does sport activity enhance the risk of sudden death in adolescents and young adults? J Am Coll Cardiol 2003; 42: 1959-63. 
  19. 19. Comitato Organizzativo Cardiologico per l’Idoneità allo Sport (ANCE-ANMCO- FMSI-SIC-SIC Sport). Protocolli cardiologici per il giudizio di idoneità allo sport agonistico 2003. Casa Editrice Scientifica Internazionale, Terza Edizione, Roma 2003. 

Author: Dott. Eugenio Isidoro Scibetta Co-Founder & Admin Scienze Salute e Benessere


PLANK: COME ESEGUIRLO CORRETTAMENTE E QUALI SONO GLI ERRORI PIÙ FREQUENTI



Il "PLANK" è un esercizio  a contrazione isometrica,  iso= uguale, metro= lunghezza, ovvero a lunghezza delle fibre costante, quindi il muscolo né si accorcia né si allunga.
È uno dei più popolari esercizi eseguiti per allenare la core-stability, ossia l’abilità di stabilizzare attivamente la regione lombo-pelvica e mantenere l’equilibrio e determinate posture.








Di base è un esercizio molto semplice: mani o avambracci a terra, a larghezza circa spalle o poco più, braccio poco meno che perpendicolare al busto, piedi circa larghezza bacino appoggiati sulle punte, per andare a disporre il corpo il più possibile su un unico piano, che risulterà parallelo al terreno o qualche grado oltre, sguardo proiettato a terra circa 1 metro davanti alla nostra testa. 



Le forze che entrano in gioco durante il mantenimento del plank possono essere facilmente comprese facendo l’esempio di un ponte. Due punti di appoggio alle estremità, e un peso (del ponte in sé – o del ponte + la portata) centrale da dover sorreggere.
Nel nostro  corpo l’arco è composto da un sistema molto raffinato di muscoli che permette di mantenere la colonna alle sue curve fisiologiche, con uno scarto che può essere minimo. Non solo il retto addominale quindi, ma anche gli obliqui interni ed esterni,  lombari, paraspinali, diaframma, dorsali/pettorali, muscoli stabilizzatori della spalla, delle gambe e lo psoas.
La fine coordinazione, oltre che la forza, di questi muscoli, è in grado di mantenerci per un lasso di tempo più o meno lungo in questa posizione.


Una variante da sottoporre è il cosiddetto Long Lever Plank, con i gomiti più avanti rispetto alla proiezione delle spalle al suolo e con la retroversione di bacino





In questa variante la retroversione del bacino, attuata attraverso la contrazione sia del grande gluteo che dei muscoli addominali, aumenta la tensione sull’attività dei muscoli del core.



Errori:

1.Il corpo non forma una linea retta
Questo succede quando i glutei sono troppo in alto o i fianchi troppo vicini al suolo, errori che indicano entrambi un addome debole e riducono l’efficacia dell’esercizio.

 


2.Postura sbagliata della testa
Tieni la testa in posizione neutrale, tienila dritta e cerca di allungare la spina dorsale. Fissa un punto sul suolo, qualche centimetro davanti a te, affinché il collo non si allunghi troppo verso l’alto o verso il basso ma si mantenga allineato con il resto del corpo. 



3.Schiena inarcata
Se la parte alta della schiena cede, significa che le spalle sono inattive e non stanno lavorando durante l’esercizio. Mantenere la posizione corretta diventa più semplice se immagini di avere una linea retta che parte dalle spalle e arriva fino ai piedi. Non dimenticare poi di contrarre i glutei, è fondamentale.



4.Ginocchia piegate
Se le ginocchia sono piegate significa che i glutei non stanno lavorando e il corpo perde tensione. Raddrizza le ginocchia, tieni la rotula saldamente in posizione così da sostenere i fianchi e mantenere la posizione corretta.


L’importanza del Core Stability
L’allenamento del core, inteso come miglioramento della forza e soprattutto della sua stabilità da tempo trova applicazione in campo riabilitativo ma è da anni che allenatori e preparatori fisici di sport di prestazione, dedicano diverso tempo alla cura di questa fondamentale parte del corpo dei propri atleti. Tratteremo nel dettaglio l’importanza del core stability ed alcuni esercizi da poter fare.
Definiremo in particolare quali sono i muscoli interessati, distingueremo il core stability dal core strength fino a considerare quali siano i reali benefici di questa tipologia di allenamento in relazione alla prestazione.

Cos’è il CORE?
Con il termine CORE si definisce quel complesso anatomico che si trova tra le ginocchia e le spalle.
Tale segmento centrale del corpo comprende quindi le regioni del torace, dell’addome e della pelvi collegando le estremità superiori a quelle inferiori e permettendo il trasferimento della forza tra le estremità stesse.
In particolare parliamo di una sorta di cilindro, le cui pareti sono formate nella parte anteriore dai muscoli addominali, in quella posteriore dai muscoli della schiena e dei glutei, in quella superiore dal diaframma e quella inferiore dai muscoli del pavimento e cingolo pelvico ( Hibbs et al. 2008).




La letteratura scientifica ci fornisce una suddivisione che comprende 29 muscoli responsabili della stabilizzazione di colonna vertebrale e bacino. 
Questi 29 muscoli vengono suddivisi a loro volta in gruppi muscolari stabilizzatori locali, più piccoli e profondi e composti in prevalenza da fibre ST e globali, più grandi ed esterni con prevalenza di fibre FT.


In ambito rieducativo troviamo la definizione che ci danno Faries e Greenwood che indicano la core stability come l’abilità di stabilizzare la colonna come risultato dell’attività muscolare, mentre la core strength, per gli autori, è la capacità della muscolatura di produrre potenza attraverso la forza contrattile e la pressione intra-addominale.

Akuthota e Nadler nel 2004 invece ci parlano di core strength in questi termini: controllo muscolare necessario alla zona lombare per mantenere la stabilità funzionale. Da queste definizioni, possiamo intendere quanto una muscolatura “forte” intorno al tratto lombare della colonna vertebrale risulti necessaria a mantenere la stabilità funzionale grazie alla massima forza contrattile della muscolatura stessa. 

Ancora precedentemente, Panjabi nel 1992 propose un modello concettuale che considerava la stabilità del core come l’interazione di 3 sistemi:
  •  SISTEMA PASSIVO: vertebre, legamenti e dischi intervertebrali;
  •  SISTEMA ATTIVO: muscoli e tendini che agiscono sul sistema lombo-pelvico;
  • SISTEMA NEURALE: unità neurali di controllo.

Ed è proprio attraverso l’interazione combinata e coordinata di questi tre sistemi, che secondo l’autore, è possibile un’eccellente funzionalità del core al fine di mantenere un range di movimento inter-vertebrale ottimale.

Perché allenare il core?
Una muscolatura debole del core può essere causa di dolori e possibili infortuni nella regione inferiore della colonna vertebrale e agli arti inferiori (Biering – Sorense 1984; Leetun et al. 2004; Mitchell et al. 2008). In ambito terapeutico, quindi, abbiamo evidenze scientifiche che ci dimostrano un’influenza positiva nella riduzione di comparsa del LBP (low back pain) e nel recupero da tale problema.
Tecnici di sport di prestazione, basandosi su ricerche disponibili in letteratura suppongono che gli esercizi per il core contribuiscano non solo ad evitare dolori e traumi della regione lombare e degli arti inferiori, ma anche ad incrementare il livello della prestazione.
Ma la domanda sorge spontanea: un buon allenamento del core permette realmente ad un atleta di essere maggiormente performante?
Mills et. al nel 2005 hanno realizzato uno studio al termine del quale hanno potuto affermare che non vi sono correlazioni significative tra il miglioramento della stabilità del core e la prestazione sportiva. Si riuscì solo a dimostrare che le atlete allenate miglioravano nella capacità di salto in verticale.

Da uno studio di Willardson del 2007 si evince, invece, che l’allenamento del core ed in particolare lo stability training integrato porti, oltre, ad una diminuzione del rischio di incorrere in infortuni, ad un miglioramento posturale, una buona gestione della capacità di equilibrio, miglioramento della coordinazione intra ed inter-muscolare, con conseguente utilizzo più efficiente della muscolatura. Si è visto che risulta maggiore la capacità di cambiare direzione e quindi di esprimere movimenti di elevata velocità.
In base a quanto proposto in precedenza, possiamo affermare con certezza che l’allenamento di stabilizzazione debba essere integrato in un contesto di approccio globale dell’allenamento (Andorlini 2013).


Conclusione
Allenare la stabilità del core dunque dovrà essere il punto di avvio, il centro da cui partire focalizzando il nostro lavoro sulla qualità del movimento. Il sistema della stabilizzazione è quindi il primo passo verso la generazione di un movimento corretto. Un’instabilità di questo punto centrale porterà conseguente instabilità nella trasmissione della forza lungo la catena cinetica.
Parlando in particolare di sport di prestazione, un intervento adeguato sui muscoli del core quindi porterà il nostro atleta ad avere una solida base su cui poter rendere più efficaci e sicuri tutti gli altri mezzi di allenamento coinvolti più direttamente nella prestazione sportiva.

Il core training in generale non è in grado da solo di poter migliorare la prestazione sport specifica dell’atleta, ma se opportunamente integrato in un programma di allenamento, può risultare un mezzo facilitante per la corretta esecuzione delle esercitazioni specifiche e, senza dubbio, utile nella prevenzione degli infortuni.

Referenze:

https://www.mtb-mag.com
Hibbs et al. 2008, Akuthota e Nadler 2004, Panjabi 1992, Biering – Sorense 1984; Leetun et al. 2004; Mitchell et al. 2008, Mills et. al 2005, Willardson 2007, Andorlini 2013



Author: Dott. Eugenio Isidoro Scibetta Co-Founder & Admin Scienze Salute e Benessere


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