LESIONI NERVOSE ED ELETTROSIMOLAZIONE



La struttura del nervo
Il nervo è costituito da delle fibre nervose raccolte a loro volta in una ‘entità gerarchica’, separate dal tessuto connettivo. Tutti i nervi presentano un analogo piano costruttivo: questi nascono dalla associazione di più entità fascicolari chiamate fascetti secondari, raggruppati insieme dal tessuto connettivo, ricco di fibre elastiche e vasi che circonda l’intero organo prendendo il nome di epinevrio; sul contorno del nervo l’epinevrio trapassa e si fonde con il connettivo ambiente, mentre all’interno separa e connette i singoli fascetti secondari. In alcuni casi i fascetti secondari possono essere raggruppati in insiemi denominati fascetti terziari, questo avviene con i nervi più grossi. I fascetti secondari possono quindi essere definiti le entità costruttive fondamentali, questi hanno sezione rotondeggiante e sono fasciati da una membrana connettivale lamellare molto netta, che prende il nome di perinevrio. Da precisare che nel perinevrio, a differenza dell’epinevrio, non si trovano fibre elastiche. Alla faccia esterna del perinevrio si attacca il connettivo epinevriale, mentre dalla faccia profonda originano delle pareti lamellari che suddividono il fascio secondario in gruppi di fibre nervose di forma irregolare chiamati fascetti primari. Il connettivo che forma i setti divisori dei fascetti primari prende il nome di endonevrio, esso si prolunga in pareti lamellari sempre più sottili sino ad avvolgere la singola fibra nervosa venendo quindi a contatto con lo strato cellulare delle cellule di Schwann. L’involucro che ne nasce sul contorno della fibra mielinica prende il nome di guaina endonevrale. Quando il nervo emette dei rami collaterali, questo cede al complesso dei fascetti secondari un numero variabile, i quali contengono la quantità di fibre necessarie per un determinato territorio al quale il ramo collaterale si distribuisce. Quando il fascetto secondario si scompone e si ramifica, i fascetti che ne derivano hanno il carattere di fascicoli primari; su di essi si prolunga il perinevrio con una struttura simile al perinevrio del fascicolo secondario primitivo. I nervolini che ne derivano hanno l’aspetto di piccoli fascetti secondari di struttura anche microscopica; con la ramificazione delle singole fibre nervose il perinevrio si trasforma in una sottile lamina connettivale che prende il nome di guaina di Henle sotto la quale c’è ancora la guaina endonevrale primitiva (guaina endonevrale sussidiaria di Ruffini). Da questa schematizzazione appare evidente che sulla singola fibra nervosa periferica si trovano almeno due membrane connettivali differenti in quanto una rappresenta l’ambiente connettivale dell’endonevrio e l’altra il prolungamento del perinevrio. Un problema biologico importante è collegato con le modalità di origine dei fascetti secondari; si è studiato se tali fascetti si costituiscono fin dall’inizio del nervo mantenendo la propria individualità lungo tutto il nervo o se i fascetti secondari raccolgono diversi contingenti di fibre progressivamente dopo la costituzione del tronco principale. Da questo studio si è compreso che i fascetti secondari non sono individualità continue dall’origine alla terminazione ma si costituiscono progressivamente per scambio di fasci che passano da un fascetto all’altro, formando il cosiddetto plesso interno del nervo. Ne consegue che un fascetto secondario che penetra in un organo non porta soltanto fibre presenti al momento della costituzione del tronco del nervo, ma anche fibre che provengono da fascetti secondari differenti, raccolte durante il percorso del nervo. Per quanto riguarda la composizione delle fibre di un nervo, essa esprime non solo la situazione anatomica ma anche un dato funzionale in quanto il significato delle fibre presenti in un determinato nervo è in relazione sia con il territorio periferico, sia con i nuclei di origine delle fibre, quindi i nervi possono essere motori somatici e viscerali, sensitivi somatici e sensitivi viscerali. Quando contengono un solo tipo di fibre sono detti nervi puri, mentre i nervi misti contengono sia fibre motrici, sia fibre sensitive. Si tenga presente che il nome dei nervi ed il loro significato funzionale non si applica solamente ai grandi tronchi di origine dal nevrasse ma anche a quei rami collaterali e terminali che assumono particolare importanza primariamente in relazione agli organi innervati.



La Classificazione di Sunderland (Nerves and nerves injuries)

-I grado: blocco di conduzione e strutture nervose integre (corrispondente alla Neuroaprassia)

-II grado: sezione dell’assone (corrispondente all’ Assonotmesi)

-III grado: sezione dell’assone e dell’endonervio

-IV grado: sia del l’endonervio che del perinervio. Sono sezionati i singoli fascicoli nervosi e la continuità del nervo è mantenuta solo dall’epinervio.

-V grado: sezione dell’intero tronco nervosa (corrispondente alla Neurotmesi)


LESIONI DEI NERVI E RECUPERO FUNZIONALE

I nervi trasmettono impulsi elettrici ai distretti anatomici cui sono collegati.
I muscoli, senza gli impulsi elettrici trasmessi dai nervi, si paralizzano e i vari segmenti corporei divengono immobili e insensibili. Semplificando, la spiegazione anatomica dei sintomi e dei segni clinici conseguenti alla lesione nervosa è dovuta al fatto che ogni singolo nervo è suddiviso in vari fascicoli più piccoli, alcuni responsabili del movimento muscolare, altri delle sensibilità cutanee.

Il recupero muscolare dopo la lesione del nervo periferico è correlato al tipo di lesione del nervo e può avvenire in quattro modi diversi.

Il primo è quello rappresentato da un recupero spontaneo e veloce del nervo con ripristino della connessione con il cervello. Un tipico esempio e la compressione limitata nel tempo del nervo ulnare quando ci appoggiamo sulla parte interna del gomito il quale è appoggiato su una superficie rigida. Vi è un blocco temporaneo della trasmissione dell’impulso elettrico con incapacità a muovere la mano e con perdita di sensibilità al tatto. Quando la compressione è rimossa, il nervo recupera, e riprende la sensibilità e la forza.

Una seconda modalità di recupero muscolare è correlata al danno del nervo caratterizzato da lesione della guaina mielica che circonda il nervo ma con il nervo integro (neuroparassia: blocco di conduzione nervosa). Questo danno avviene per compressioni prolungate del nervo. I tempi di recupero del nervo e quindi della funzione muscolare di questa tipologia di danno vanno dalle quattro alle dodici settimane.

Se le cellule del muscolo non ricevono il segnale elettrico dal nervo per un periodo di tempo creano ed emettono delle richieste di aiuto mediante segnali chimici. Qualunque fibra nervosa integra, vicina alla zona muscolare che non è più innervata, crea quindi delle nuove branche dirette verso le fibre muscolari rimaste prive del segnale nervoso, questa crescita di nuove terminazioni nervose contigue richiede dalle dieci alle sedici settimane. Quando le nuove terminazioni nervose si connettono alle cellule muscolari può riprendere la contrazione del muscolo. Gli assoni integri possono creare tre o quattro nuove terminazioni nervose. Ogni singolo nervo può quindi quadruplicare le cellule muscolari cui normalmente è connesso.

Nel terzo tipo di recupero muscolare la lesione del nervo è dovuta a un danno non totale (assonotmesi: perdita di continuità della solo componente assonale del nervo), e si può assistere alla ricrescita lungo la stessa vecchia via di passaggio delle fibre nervose, guaina mielinica, e una riconnessione al muscolo originariamente collegato al nervo stesso. Questo è possibile se la guaina esterna del nervo, composta dalla mielina, è integra.

Questo tipo di lesione del nervo è determinata da compressione o trazione, che determinano una degenerazione delle parti distali dell'assone. Il quadro anatomopatologico-chirurgico è quello del neuroma, in pratica una cicatrice dentro il nervo. Gli effetti sono rappresentati dalla perdita totale delle relative funzioni motorie, sensitive e trofiche.

La velocità di ricrescita del nervo dipende dall’età del paziente e in media e di 1 mm al giorno. Una lesione del nervo S1, responsabile delle funzioni sensitive e motorie più distali dell’arto inferiore, comporta una ricrescita lungo tutto l’arto inferiore che durerà in media non meno ventiquattro mesi.

Il problema è che il muscolo, senza la stimolazione nervosa diventa fibrotico, e quindi non più utilizzabile, in un periodo che va dai dodici ai diciotto mesi. I muscoli che sono a mezzo metro o meno di distanza dalla lesione del nervo, se hanno la guaina mielinica integra, hanno ottime possibilità di riavere la connessione con il nervo danneggiato.

Il quarto tipo di recupero muscolare avviene a certe condizioni. Naturalmente, anche se parte delle cellule muscolari sono perse per la difettosa connessione nervosa o per la mancanza della rigenerazione delle fibre nervose contigue, le cellule muscolari rimanenti si ipetrofizzano, cioè diventano più grosse e più forti, per compensare le cellule perdute.

Nel caso il nervo presenti una lesione completa, con perdita di continuità anatomica (neurotmesi), la rigenerazione spontanea non avviene e ovviamente neppure il recupero muscolare. Clinicamente vi è perdita totale della funzione motoria, sensitiva e trofica. La rigenerazione nervosa è possibile solo dopo revisione chirurgica e sutura dei capi nervosi sezionati.

Il merito della microchirurgia è stato la possibilità di ricollegare i monconi di questi singoli elementi nervosi, aventi diametri di circa 1 mm, l’uno con l’altro con estrema precisione creando una situazione anatomica che rende possibile la ripresa del movimento e della sensibilità.

Nonostante i progressi della microchirurgia la percentuale di successo nel trattamento delle lesioni dei nervi periferici non ha ancora raggiunto valori ottimali. La causa è correlata alle numerose variabili possibili tra cui le più importanti sono l’età, il tipo di lesione, il ritardo della diagnosi e del conseguente trattamento. Negli anziani la percentuale d’insuccesso è maggiore.

Le lesioni del nervo da taglio netto e senza perdita di sostanza presentano una prognosi, dopo trattamento chirurgico, migliore rispetto a quelle da strappamento. La frequente concomitanza di lesioni dell’apparato osteo-muscolare e vascolare, che hanno spesso una priorità di trattamento, può portare a una sottovalutazione o a un ritardo nelle diagnosi e nel trattamento delle lesioni dei nervi periferici. Tutto questo porta a danni permanenti rilevanti e a un elevato costo sociale.

Il trattamento chirurgico standard delle lesioni nervose con perdita di sostanza è l’innesto nervoso autologo (autotrapianto). Si preleva un nervo poco importante dal punto di vista funzionale, in genere il nervo surale che è un nervo puramente sensitivo responsabile della sensibilità di una piccola zona cutanea della gamba, per innestarlo dove vi è la lesione del nervo periferico 




Nelle metodiche di recupero funzionale dei nervi periferici quando sono interrotti o alterati è presenta la STIMOLAZIONE ELETTRICA: in determinati studi scientifici sperimentali si è visto che ha un ruolo preciso; infatti se utilizzata in moto corretto permette:
  • l’aumento della crescita dei neuriti
  • migliora la rigenerazione assonale
  • stimola le cellule staminali del midollo osseo che possono favorire degli elementi per la rigenerazione.
L'efficacia sta nel fatto che l'Elettrostimolazione si va praticamente a sostituire al Sistema Nervoso riuscendo a contrarre tutte le fibre dall'esterno, anche quelle che hanno perso la conduzione  per un determinato muscolo che non riuscirebbe "normalmente" ed autonomamente a muoversi perchè paralizzato.

Anche se ancora abbastanza sperimentale, l’elettrostimolazione associata a dei movimenti adeguati e funzionali della zona colpita dalla lesione nervosa può permettere un miglioramento nel recuperare le funzioni perse.





Bibliografia:
DR EZIO RITTÀ DO DHOM
DR VANNI VERONESI (neurochirurgo)





Author: Dott. Eugenio Isidoro Scibetta Co-Founder & Admin Scienze Salute e Benessere


STUDIO: "ESERCIZIO E FATICA NEL PAZIENTE ONCOLOGICO SOTTOPOSTO A CHEMIOTERAPIA"

 
Introduzione:
In ambito oncologico si stima che la fatica abbia un’incidenza compresa tra 70-90%, con un coinvolgimento del sesso femminile quasi doppio rispetto a quello maschile. 
La fatica associata al cancro non è solo il sintomo più spesso lamentato dai pazienti, ma è anche quello che ha il maggior impatto sulle attività della vita quotidiana, influendo su aspetti fisici, psicosociali, economici e occupazionali1. Considerata la rilevanza del fenomeno, negli ultimi anni sono comparsi in letteratura diversi studi con l’obiettivo di identificare un valido criterio di valutazione ed un trattamento efficace. 
Il termine “fatica” è stato usato per descrivere uno stato di malessere generale che va dall’astenia all’ esaurimento muscolare. Fisiologicamente viene considerata un’inabilità nel mantenere i normali livelli di rendimento, dovuta ad una maggiore percezione dello sforzo. 
Sebbene non sia ancora conosciuto l’esatto meccanismo che promuove l’insorgenza della fatica nei pazienti affetti da tumore, molteplici sono i meccanismi d’azione: abnorme accumulo di metaboliti a livello muscolare, produzione di citochine (TNF in particolare), alterazioni neuromuscolari, anomala sintesi di ATP, disregolazione della serotonina, attivazione vagale. Anche le cause possono essere diverse: dolore, comorbidità, alterazioni dell’umore, disturbi del sonno, anemia, squilibri nutrizionali, riduzione del- l’attività fisica, farmaci, trattamento oncologico (chirurgico-radioterapico-chemioterapico). 
Quella che insorge in seguito a trattamento chemioterapico si manifesta in quanto le sostanze tossiche presenti nei farmaci utilizza- ti contribuiscono alla sua insorgenza attraverso meccanismi cellulari (pancitopenia e immunosoppressione), meccanismi fisiopatologici (deficit del volume di liquidi, squilibrio idroelettrolitico, deficit nutrizionale) e fattori psicologici come situazioni di stress generalizzato2
Per una completa comprensione della fatica e per quantificarne l’impatto sulla qualità di vita del paziente prima e dopo il trattamento, è utile procedere ad una valutazione sia soggettiva che oggettiva. Per la valutazione soggettiva si ricorre a scale unidimensionali (Scala Analogica Visiva) e multidimensionali (Piper Fatigue Scale, FACT-F, SF-36, MFI-20, FAQ) da somministrare al paziente. Per quanto riguarda la valutazione oggettiva, gli studi presenti in letteratura utilizzano perlopiù test quali il 6-Minute-Walking-Test e la misurazione delle concentrazioni di Ossigeno e CO2 nell’aria espirata durante una pro- va massimale o sub-massimale su cicloergometro o treadmill; altre possibili misure oggettive della fatica sono i test di forza con dinamometro, come il Grip e il Pinch endurance test. 
Lo studio della evoluzione della fatica nel tempo è fondamentale per verificare l’efficacia di un trattamento. Una recente review ha analizzato l’esercizio fisico nella fatica in oncologia, e il training riabilitativo più frequentemente utilizzato ( esercizi aerobici come camminata, cyclette per 15-30 minuti al giorno)3
Il nostro studio ha come obiettivo quello di misurare quantitativa- mente e qualitativamente la fatica in pazienti oncologici sottoposti a trattamento chemioterapico e mettere a confronto l’effetto di una generica attività fisica aerobica con quello di un protocollo di esercizi mirati. 



Materiali e metodi 
Nello studio sono state reclutate 11 pazienti di sesso femminile, affette da tumore della mammella, sottoposte a trattamento chirurgico e chemioterapia adiuvante. 
Sono state escluse pazienti affette da significative patologie internistiche, neurologiche e muscoloscheletriche che potevano alterare i risultati dei test funzionali. 
Le pazienti sono state valutate in tre tempi: prima dell’inizio della chemioterapia (T0), a fine del ciclo chemioterapico (T1) e a distanza di 3 mesi (T2). 
Sono stati utilizzati i seguenti indici di outcome: Scala Analogica Visiva (VAS), Questionario FACT-F, Six-Minute-Walking Test, Power Grip endurance con dinamometro. 
La scala FACT-F è formata da 40 items suddivisi in 5 sezioni; quella adottata da noi è composta da 13 items e riguarda la valutazione della fatica e della sua influenza sulla vita quotidiana. Le pazienti dovevano rispondere al questionario relativamente alla loro situazione degli ultimi 7 giorni con un numero compreso tra 0 (corrispondente al termine “per niente”) e 4 (corrispondente al termine “moltissimo”). Il punteggio, corrispondente risulta compreso tra 0 e 52; a maggiore punteggio corrisponde un minore livello di affatica- mento. 
Per quanto riguarda il Six-Minute-Walking Test, abbiamo rilevato a riposo la saturazione di Ossigeno (SaO2) e la Frequenza Cardiaca (Fc) delle pazienti e abbiamo valutato il livello di fatica con la scala di Borg (Tab. I). Quindi è stato chiesto alle pazienti di camminare più rapidamente possibile lungo un corridoio di 30 metri per 6 minuti. Alla fine dei 6 minuti abbiamo misurato la distanza percorsa in metri e abbiamo nuovamente rilevato SaO2, Fc e livello di fatica con la scala di Borg.







Infine abbiamo effettuato il Power Grip test per indagare la presa di forza e il decadimento della stessa. Durante il test le pazienti dovevano mantenere il gomito flesso e la mano chiusa su di un dinamometro cilindrico collegato ad un computer che raccoglieva i dati. 
Le pazienti dovevano effettuare tre contrazioni: 2 istantanee con massima forza e una Endurance per 20 secondi. Dopo una valutazione iniziale coi test sopra descritti, le pazienti sono state suddivise random in due gruppi, A e B, che hanno effettuato un protocollo riabilitativo mirato in concomitanza al trattamento chemioterapico. Il gruppo A comprendente 5 pazienti, ha effettua- to esercizi aerobici, di resistenza e di stretching a domicilio per 3 volte a settimana, per 30 minuti; previa istruzione formale per 2 vol- te con il fisioterapista. Al gruppo B comprendente 6 pazienti, è stata consigliata un’attività fisica aerobica generica (camminata o cyclette) da eseguire per 30 minuti al giorno, 3 giorni a settimana. 
Tutte le pazienti sono inoltre state contattate a metà del ciclo chemioterapico-riabilitativo, per valutare il livello di aderenza al pro- gramma. A tale scopo abbiamo utilizzato una scala con punteggio da 0 a 10: 0-3 scarsa aderenza, 4-6 media, 7-10 massima (Tab. II). 

Risultati 
Solo 2 pazienti (una in ogni gruppo) hanno per ora terminato il ciclo di chemioterapia e sono state rivalutate in T1; in entrambe abbiamo riscontrato un lieve peggioramento dei parametri oggettivi (6MWT e Grip test), ma una soggettiva sensazione di benessere (miglioramento delle scale VAS e Fact-F). Quando le pazienti sono state contattate a metà circa della CT per conoscere il livello di aderenza agli esercizi assegnati abbiamo riscontrato una differenza tra i due gruppi. Su 5 pazienti del gruppo A: 1 ha avuto una modesta aderenza al programma, 4 hanno avuto un’aderenza elevata; delle 6 pazienti del gruppo B: 1 ha avuto una scarsa aderenza, 3 hanno avuto un’aderenza media e 2 un’aderenza elevata. Per quanto riguarda i restanti risultati, 9 pazienti non hanno ancora terminato il ciclo di CT e verranno quindi successivamente valutate. 

Conclusioni 
Anche se i risultati di questo lavoro sono da considerarsi preliminari vista l’esiguità del campione fino ad ora esaminato, emergono due dati importanti:
– la compliance del paziente sembra essere superiore nell’esercizio home-based con iniziale addestramento;
– la seduta di richiamo al termine della CT evita l’errata convinzione che l’esercizio fisico sia legato solo alla durata della CT. 
Il nostro lavoro è comunque finalizzato al perfezionamento di un percorso riabilitativo home-based con il supporto di materiale educativo ( cartaceo e/o elettronico) in pazienti prevalentemente in CT adiuvante. 
Parallelamente il nostro secondo obiettivo sarà di creare un per- corso individuale e personalizzato in ambiente protetto per malati oncologici particolarmente decondizionati in seguito a CT e/o progressione di malattia. 



1U.O. Medicina Riabilitativa;
 2Scuola di specializzazione in Medicina Fisica e Riabilitazione, Azienda Ospedaliera-Universitaria di Parma 


Bibliografia 
1. Stasi R, Abriani L, Beccaglia P, Terzoli E, Amadori S. Cancer-related fati- gue.Evolving concept in evaluation and treatement. American Cancer Society. 2003. 
2. Iop A, Manfredi AM, Bonura S. Fatigue in cancer patients, receiving che- motherapy: an analysis of published studies. Annals of Oncology 2004;15:712-20. 
3. Knols R, Aaronson NK, Uebelhart D, Fransen J, Aufdemkampe G. Physi- cal exercise in cancer patients during and after medical treatment: a systematic review of randomized and controlled clinical trials. Journal of clinical oncology. 2005;3. 
4. ATS Statement: guidelines for the six-minute walk test. March 2002. 

Autori
Cosimo Costantino: University of Parma, Parma Italy 

Romina Galvani: Centro Cardinal Ferrari 

STRETCHING P.N.F.

Lo stretching PNF (Propioceptive Neuromuscolar Facilitation) è un metodo con cui si induce il rilasciamento muscolare tramite una stimolazione programmata e selettiva dei propriocettori generali.



Nello specifico si basa sulla facilitazione degli effetti inibitori regolati dai fusi neuromuscolari e dagli organi del Golgi nei confronti del sistema muscolo-tendineo. Il rilasciamento di quest’ultimo complesso, secondo leggi di Sherrington, conduce ad un cospicuo aumento della flessibilità.




Come posso utilizzare lo stretching PNF?

Inibizione Autogena: Sfrutta il principio fisiologico secondo cui il muscolo, dopo una prima fase di contrazione costante, tende a rilassarsi. L’atleta contrae il muscolo interessato contro la resistenza imposta dal preparatore atletico (muscolo agonista del movimento) per circa cinque secondi, con una forza pari al 50% della forza massimale. Di seguito, non appena l’atleta cessa di contrarre volontariamente il muscolo agonista, il preparatore atletico esegue un allungamento lento e progressivo dello stesso. Questo processo, grazie all’elevata tensione determinata dalla contrazione muscolare, intensifica ed anticipa l’intervento degli organi tendinei del Golgi.

Inibizione Reciproca: Questa metodica, a differenza della precedente, si avvale dell’inibizione al movimento che si viene a creare sul muscolo antagonista (muscoli diretti dell’antagonismo), dopo una contrazione del suo agonista. La contrazione volontaria del muscolo agonista al movimento interessato all’incremento di flessibilità , che in questo caso deve essere pari al 70-80% della forza massimale, permette cioè di ottenere un effetto di rilasciamento nei confronti del suo antagonista.
Quindi una volta raggiunta la posizione di allungamento desiderata, l’atleta contrae (per un tempo di circa dieci secondi), il muscolo antagonista a quello interessato allo stretching, cercando di vincere la resistenza offerta dal preparatore atletico e dalla rigidità dei vari tessuti. Successivamente, dopo che l’atleta avrà cessato di contrarre volontariamente il muscolo, il preparatore atletico eserciterà una progressiva e lenta spinta diretta verso l’allungamento del settore corporeo interessato.

Inibizione Crociata: La strategia si basa sul fatto che, dopo una contrazione di un muscolo, segue un’inibizione del muscolo uguale e contrario (Omonimo ControLaterale). L’atleta quindi contrae il muscolo omonimo contro-laterale a quello interessato all’allungamento per circa dieci secondi (contrazione pari al 70-80% 1RM), contro una resistenza imposta dal preparatore atletico. Dopo ciò il il preparatore eseguirà una lenta e progressiva spinta diretta all’allungamento del settore corporeo interessato. La contrazione del muscolo omonimo contro-laterale, permette di sfruttare l’effetto di rilasciamento muscolare indotto dall’intervento inibitorio regolato dai fusi neuro-muscolari. Questa tecnica viene usata, in genere, solamente quando il soggetto ha già acquisito un buon controllo delle tecniche precedenti alla stessa.




Come si applica?

  • Il primo è il metodo mantieni e rilassa: Sfrutta la tecnica dell’inibizione autogena e viene usato come primo approccio allo stretching PNF quando il soggetto presenta una mobilità molto ridotta.
  • Il secondo è il metodo contrai e rilassa: si basa sul principio dell’inibizione reciproca e viene usato quando il soggetto presenta una buona mobilità e il movimento attivo non crea nessun tipo di dolore.
  • Il terzo è il metodo CRAC: rappresenta l’insieme delle precedenti inibizioni (inibizione autogena e reciproca) ed è giudicata la tecnica più efficacie per l’incremento della mobilità. L’atleta contrae quindi il muscolo interessato all’allungamento, successivamente lo rilassa e il preparatore passivamente esegue un allungamento lento e progressivo (inibizione autogena). In seguito l’atleta contrae il muscolo agonista al movimento, per poi rilassarlo quando il preparatore atletico cercherà nuovamente di aumentare la flessibilità (inibizione reciproca).

Le metodiche PNF devono essere usate in progressione, secondo la possibilità del soggetto in esame. L’allungamento migliore si ottiene attraverso la ripetizione dell’inibizione autogena, seguita da quella reciproca per tre volte e infine concludendo con l’inibizione crociata.

Bibliografia

 Eric P.Widmaier, Hershel Raff, Kevin T.Strang, Vander Fisiologia, casa editrice ambrosiana, 295 





Author: Dott. Eugenio Isidoro Scibetta Co-Founder & Admin Scienze Salute e Benessere

PRESCRIZIONE DELL'ESERCIZIO FISICO NELLA TERZA ETÁ


La nostra società presenta una situazione in cui il tasso di natalità è zero e l'età media si sta alzando notevolmente, con una percentuale di popolazione maggiore, che fa parte della terza età.
Vari studi, hanno dimostrato che l'attività fisica è un'ottimo mezzo per rallentare e rendere meno problematico il processo d'invecchiamento.
Un moderato allenamento, protratto per tutta l'esistenza della persona e mirato a migliorare alcune patologie, può allungare leggermente la vita e migliorarne le qualità.

Il compito del Chinesiologo è quello di educare l'anziano all'allenamento, seguendo sempre due aspetti fondamentali:
  • Collaborare con un medico che valuta la salute.
  •  Proporre un piano di allenamento più personalizzato possibile.

APPARATO RESPIRATORIO
Con il passare del tempo, l'apparato respiratorio va incontro a diversi tipi di problemi:
  • Indurimento dei vasi sanguigni e diminuzione del numero di capillari che irrorano i polmoni.
  • Perdita di funzionalità da parte dei muscoli respiratori, diminuzione dell'articolarità condro-costale.
  • Minor elasticità tissutale dei polmoni, con conseguente perdita della giusta meccanica respiratoria.
La conseguenza che le precedenti cause scatenano è:
  • Respirazione affannosa.
  • Decremento della capacità vitale.
  • Riduzione del volume di riserva respiratoria ed inspiratoria.
  • Aumento dello spazio morto e del volume residuo.
Il Vo2max calerà, di conseguenza un piccolo sforzo corrisponderà a un grande impegno dell'apparato respiratorio.

Importante sarà lavorare con esercizi di streching per la mobilità articolare, ginnastica respiratoria, rinforzo muscolare del core e una buona attività cardiovascolare.

SISTEMA SCHELETRICO

Il sistema scheletrico va incontro a vari fenomeni degenerativi, dalla demineralizzazione ossea, che porta all'osteoporosi, artrosi e malattie reumatiche.
La sollecitazione ossea con carico, riesce a diminuire le perdite di minerali, mantenendo una discreta densità.
Gli stimoli da poter apportare sono molto semplici:
  • Camminare.
  • Esercitazioni con attrezzature ''anisotoniche''.
  • Attività di tipo Aerobico.
  • Utilizzo di pedane vibranti.



SISTEMA NERVOSO
I neuroni che compongono il sistema nervoso centrale, con il tempo calano di funzionalità e numero.
Le cause possono essere di tipo fisiologico o patologico, con il conseguente rallentamento delle funzioni psico-motorie.
L'esercizio fa si che più sangue arrivi al cervello, favorendo il passaggio di neurotrasmettitori nella barriera ematoencefalica e stimolazioni propriocettive importanti.

SISTEMA ENDOCRINO E IMMUNITARIO
Con il progredire degli anni, le secrezioni ormonali subiscono delle notevoli variazioni. I fenomeni a cui maggiormente assistiamo sono calo degli ormoni ''buoni''.
  • GH
  • TESTOSTERONE
  • DHEA
  • TSH,FT3,FT4
Ed aumento degli ormoni dello stress come il Cortisolo.

APPARATO CIRCOLATORIO
Studi recenti hanno evidenziato che persone anziane allenate rispetto a coetanei non allenati, presentano:
  • Aumento della gittata sistolica.
  • Aumento del trasporto di ossigeno.
  • Aumento della capacità contrattile del muscolo cardiaco.
  • Frequenze cardiache a riposo inferiori.
  • Aumento del numero di capillari a livello muscolare e polmonare.
COMPOSIZIONE CORPOREA
A livello della composizione corporea, avvengono tipi di cambiamenti che sono causa di svariati problemi di salute.
Il corpo con il progredire dell'età va incontro a disidratazione. Un esempio di problematica che questo fenomeno porta con se è la disidratazione del disco intervertebrale, che fa sì che i dischi siano meno gonfi e resistenti, creando così un deficit di assorbimento delle sollecitazioni create soprattutto dalla corsa.
Il rapporto massa magra e grassa si modifica, creando cambiamenti conformazionali, con successivi deficit metabolici.
Il regolare esercizio fisico, contrasta le problematiche sopraelencate, migliorando la stato di salute generale.

FORZA
Anche la forza muscolare cala e con essa la percentuale di fibre muscolari di tipo veloce, a discapito di fibre lente, tessuto fibroso e adipe muscolare.
Le linee Z si rompono causando contrazioni meno funzionali, il numero e la grandezza dei mitocondri diminuisce, in poche parole i muscoli non sono più in grado di assolvere pienamente alle proprie funzioni.
Anche in questo caso il regolare esercizio fisico può far sì che a livello muscolare si ristabiliscano determinati equilibri, che le fibre di tipo veloce aumentino di numero a discapito di quelle lente, che i mitocondri aumentino di grandezza e che il muscolo sia più vascolarizzato.


Ma quanto deve essere intensa l'attività fisica in un soggetto anziano affinchè essa sia efficace e favorevole?

Esiste un limite entro il quale può risultare dannosa ?


In uno studio sperimentale, pubblicato nel 1982 e successivamente confermato, era messo in evidenza come vi fosse un aumento di longevità nei ratti che venivano allenati quotidianamente, ma solo se l'attività fisica iniziava in giovane età.

Al di là di una ''età soglia'', che si può individuare in questo studio nell'età adulta del ratto, l'allenamento riduceva la longevità.
E' vero che l'esercizio fisico attenuato sperimentalmente in questi ratti era al limite dello stress, e per forza di cose, ''forzato'' quindi, poco confrontabile con quello di un gruppo di anziani che frequenta una palestra. Tuttavia l'esistenza di questa ''età soglia'' poneva un grosso interrogativo per la salute degli anziani.

In parte la risposta ai precedenti quesiti è venuta da un gruppo di ricerca di Stanford e Harvard che ha studiato 16.939 studenti maschi, di età fra i 35 ed i 74 anni. Ad iniziare dal 1972, li ha seguiti per 16 anni registrandone i livelli di attività fisica e mettendoli in relazione con sopravvivenza e mortalità.
I risultati emersi confermano che un'attività costante ( con un dispendio energetico settimanale minimo di 500kcal e massimo 3500 kcal), evidenziava un'aumento della longevità, con diminuzione del rischio di morte dal 30 al 50% in meno e con un guadagno rispetto ai sedentari di 2.33 anni di vita.
In caso contrario l'effetto di uno sport ad alta intensità (più di 3500Kcal settimanali) sulla longevità negli anziani mostrava un'effetto negativo.

In conclusione un'attività moderata, sotto stretta visione di personale specializzato permette di aumentare la qualità di vita. Il tutto dovrà seguire uno stile di vita e norme igieniche adeguate.

Bibliografia:
Prof.ssa Maria Adelaide Marini medico internista e professore presso L'università di Roma Tor Vergata.


           
   


CARDIOPATIA ISCHEMICA & SPORT





La Cardiopatia Ischemica è conosciuta anche come ischemia miocardica.
- cardiopatia: malattia del cuore
- ischemia: diminuzione o soppressione dell'apporto di sangue in un determinato distretto 

I tessuti colpiti da ischemia si trovano in una situazione caratterizzata da:
  1. ridotto apporto di ossigeno (ipossia, anossia)
  2. ridotta disponibilità di nutrienti
  3. ridotta eliminazione delle sostanze di rifiuto

Nella cardiopatia ischemica post-acuta la prescrizione medica dell’esercizio viene effettuata dopo la valutazione funzionale e deve svolgersi per un limitato periodo di tempo in un setting riabilitativo dove, per esperienza e competenze professionali, la ripresa dell’attività fisica può essere graduata e quantificata in condizioni di sicurezza

Nella cardiopatia ischemica cronica, invece, l’esercizio può essere effettuato, dopo accurata valutazione, in maniera autonoma o con differenti gradi di supervisione e mantenimento il più a lungo possibile.
È stato dimostrato che la prognosi a lungo termine è significativamente migliore quando viene ottenuta e mantenuta una capacità funzionale più elevata.

Riabilitazione cardiologica e prevenzione secondaria sono due momenti integrati ed indissolubili, che si realizzano attraverso l’applicazione di una serie di interventi (assessment globale, ottimizzazione della terapia farmacologia, intervento nutrizionale, trattamento dei fattori di rischio) che comprendono l’esercizio terapeutico e la prescrizione dell’attività fisica da proseguire a tempo indeterminato .
Uno degli aspetti più critici della prevenzione secondaria è tuttavia rappresentato dalla scarsa aderenza ai programmi: dall’analisi di trials e studi controllati, risulta che l’aderenza al programma di prevenzione, anche dopo la riabilitazione, decade progressivamente a circa il 50-60% ad un anno ed a circa il 20-30% a 3 anni.

Dopo un training fisico di 3-6 mesi, la maggior parte degli studi riportano 
un incremento significativo della capacità    funzionale, una riduzione della frequenza cardiaca (FC) 
e della pressione arteriosa, 
un innalzamento della soglia ischemica 
e un incremento del picco di consumo di ossigeno (VO2max) tra l’11 e il 66%. 

Organizzazione del programma di training fisico Sono efficaci i programmi di attività fisica che, attraverso l’applicazione di attività con intensità, durata e modalità adeguate, fanno ottenere benefici dal punto di vista cardiovascolare e funzionale. Sono sicuri i programmi che non producono complicanze, né a breve né a lungo termine, per i quali sono ben definiti i limiti di sicurezza ed i criteri di sorveglianza. 

INTENSITÀ
 Un esercizio anche se di moderata intensità , ma condotto con continuità e regolarità, è in grado di produrre effetti significativi, se adattato alle condizioni cliniche, agli specifici bisogni, agli obiettivi terapeutici, alle capacità ed alle preferenze dei singoli pazienti. 
Recenti studi hanno valutato l’effetto di differenti intensità dimostrando che solo un esercizio fisico aerobico moderato, al 50% del VO2max, aumenta la vasodilatazione endotelio- dipendente attraverso l’aumento della produzione dell’ossido nitrico, mentre l’esercizio molto intenso, superiore all’80% del VO2max, porta ad un aumento dello stress ossidativo. 
L’intensità ottimale dell’esercizio fisico non deve essere basata su valori assoluti, ma riferita alle capacità fisiche e funzionali del soggetto, analogamente ad un farmaco, di cui è necessario conoscere indicazioni, controindicazioni, meccanismo di azione, eventuali interazioni ed effetti indesiderati. 
  1. FC: Dopo aver determinato al test ergometrico la FC massimale del soggetto, si stabilisce come FC ottimale quella equivalente al 70-85% di tale valore, oppure quella che risulta dalla somma della FC a riposo più il 50-80% della differenza fra la FC massimale e quella a riposo.
  2. VO2max: Quando è possibile o indicato misurare il VO2, si individua la FC corrispondente al 50- 70% del VO2max, oppure si misura la FC alla soglia anaerobia, assumendo come valore di riferimento tale frequenza meno 10 battiti. 
  3. METs: talvolta può essere utile o necessario calcolare il carico ideale di lavoro in METs, utilizzando apposite tavole e determinando il tipo di esercizio corrispondente a tale dispendio energetico. 

    DURATA DELLE SEDUTE                           può oscillare dai 5 ai 60 minuti, è determinata individualmente ed è inversamente proporzionale all’intensità dello sforzo. 
    All’inizio del programma si comincia con sedute più brevi, che vengono aumentate progressivamente. 
    Per attivare le vie metaboliche ed energetiche l’ambito ottimale di durata per singola seduta è compreso, lavorando con intensità intorno al 70-80% della FC massimale, tra i 20 ed i 30 minuti.
    Una ulteriore modalità per individuare il rapporto tra intensità e durata dell’esercizio è quella di calcolare la spesa energetica, che dovrebbe realizzare un totale di 250-300 Kcal per sessione, pari a circa 1000-1500 Kcal a settimana. 


    FREQUENZA 

    Nelle prime fasi è necessario un graduale aumento dei carichi di lavoro per controllare più accuratamente la risposta cardiovascolare. La risposta emodinamica rilevata ai test da sforzo abitualmente effettuati nei laboratori di ergometria (test al cicloergometro con incrementi di 25 watt ogni 2 o 3 minuti, test al treadmill con protocollo di Bruce standard o modificato) non sempre ha una relazione lineare con il comportamento emodinamico che si realizza durante la seduta di training. Per questo, si raccomanda di iniziare il programma con carichi lievi a frequenza quotidiana, con costante sorveglianza della FC e della PA, per graduare con sicurezza sia l’intensità che la durata della sessione di esercizio.  Successivamente sono sufficienti sedute tri-settimanali. 

    Se il training viene interrotto, si ha una riduzione della capacità di lavoro del 50% nell’arco di quattro o cinque settimane. 


    PROGRESSIONE E DURATA DEL PROGRAMMA
     Il programma di esercizio fisico viene adattato continuamente alla risposta allo sforzo del soggetto, che varia in relazione al grado di allenamento acquisito ed alla maggiore confidenza con le modalità di esecuzione dell’esercizio stesso. Un metodo per valutare la progressione dello sforzo è basato sull’utilizzazione della scala di percezione soggettiva dell’intensità dello sforzo di Borg . Il livello di fatica percepito (RPE) corrisponde in modo soddisfacente alle misurazioni oggettive del carico, del VO2 e della FC. 
    La valutazione della percezione soggettiva dello sforzo è particolarmente necessaria nei pazienti più compromessi (quali i soggetti con severa disfunzione sistolica, pluripatologia, in età molto avanzata o dopo prolungato allettamento), in quanto in essi la personalizzazione del programma di training è molto più delicata e la progressione dell’esercizio richiede un metodo di valutazione standardizzato e facilmente riproducibile. 


    SICUREZZA E MODALITÀ DI CONTROLLO

     L’avvio del programma è riservato a pazienti in fase di stabilità che non presentano situazioni cardiache o patologie associate tali da determinare controindicazioni assolute o relative all’attività fisica. 

    La sicurezza del training nella fase post-acuta della cardiopatia ischemica è riferibile a casistiche degli anni ‘90, che riportano mediamente 5 eventi maggiori, nessuno fatale, su circa 290.000 ore di esercizio/ paziente.

     Questi dati derivano da analisi retrospettive, non estendibili alla situazione attuale per la diversità nella selezione dei pazienti. 
    Ciò rende scarsamente indicativa e verosimilmente sovrastimata l’incidenza delle complicanze.

    Nella pratica  per i pazienti con cardiopatia ischemica la necessità di sorveglianza ECGrafica viene stabilita sulla base della stratificazione del rischio, che prevede 
    • il monitoraggio permanente per i soggetti ad “alto rischio”
    • un monitoraggio solo nelle sedute iniziali per i soggetti a “basso rischio”. 

    I pazienti clinicamente stabili, a basso profilo di rischio , possono effettuare varie tipologie di esercizio fisico di tipo ricreativo autonomamente, senza necessità di sorveglianza.  

    I pazienti clinicamente stabili ed a basso rischio, ma con difficoltà all’aderenza o al cambiamento dello stile di vita o con altri fattori di rischio presenti, possono effettuare l’esercizio fisico autonomamente, ma necessitano di periodici rinforzi da parte del Curante o di una struttura riabilitativa di riferimento. 


    I pazienti con condizioni che li espongono al rischio di progressione di malattia (per es.: diabete, ipertensione) o di deterioramento della funzione cardiaca (per esempio: malattia coronarica plurivasale), devono effettuare esercizio fisico solo con rivalutazioni periodiche che ne documentino la stabilità; la prescrizione deve essere limitata ad attività aerobiche a bassa intensità. 



     I pazienti con profilo di rischio medio-elevato dovrebbero effettuare attività fisica in strutture dedicate, che garantiscono esperienza e competenza degli operatori; nei casi più complessi è necessaria anche la supervisione medica.




    Bibliografia:
    Prof.ssa Maria Adelaide Marini: medico internista e docente presso Università Tor Vergata UniRoma 2



    Author: Dott. Eugenio Isidoro Scibetta Co-Founder & Admin Scienze Salute e Benessere




Tratto da http://www.my-personaltrainer.it/cardiopatia-ischemica/cardiopatia.html

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